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Rew come replay, ritorno, memoria,
5 deflagranti memorie di poesia invasiva, fra Stockhausen, John Lennon e Pierre Boulez 5
Venezia, Palazzo Cini a San Vio
4 luglio 2009, ore 17.00
Quinta sessione: SUR INCISES
di Pierre Boulez, 1996-1998
per 3 pianoforti, 3 arpe e 3 percussioni a martello
in due movimenti: Moment I – Moment II
Un film di Andy Sommer ed Hélène Jarry, 2008
Sur Incises, è una lezione-concerto che Boulez tiene attorno all’architettura nascosta dell’omonimo brano del 1996-1998, scritto per un ensemble di nove strumenti (3 pianoforti, 3 arpe, 3 percussioni) – in questo caso gli strumentisti dell’Ensemble Intercontemporain. La formazione dell’opera ci giunge attraverso le parole del compositore che ci offre una serie di immagini (questa volta figurate) utili non solo alla comprensione della musica, ma anche a una sua più empirica fruizione.
In questo caso un buon film, com’è quello di Sommer, può darci la chiave di accesso più rapida a una musica in cui, se privi di punti cospicui, si rischia di fraintendere molto.
Riguardo alla composizione e alle sue architetture di risonanza, Boulez, parla di ponti tra incisi, di un ogni dire un interstizio di silenzi alieni, di un abitare incidendo su – ciò che è più grande.
Cammini con poche vere apparizioni, con consapevolezza momentanea del bivio preso, racconti della creazione, visioni del dove ci si è trovati e da che parte si è andati, senza regole né mappe, cogliendo le possibilità e rendendole strade motivate, talvolta “maestre”, irremissibili, comunque nostre. Essere (negli/degli) incisi, incidentalmente, una sorta di dovere estetico.
Gettare reti nel mare del suono, raffinare la maglie della rete, sempre più strette, pronte a trattenere le rime del sensibile; lavorare sulle rispondenze, sulle migrazioni, sui giochi speculari così che tutto vibri, fluisca da un luogo all’altro: in tutti i luoghi di questa prospettiva incisa, tutto risponde e si tiene; fa corpo; è nostro corpo; è senso denso. Abbassare le mani davanti a tutto questo, lasciare che tutto continui in noi, dopo più tardi, nell’oramai giunto ritardo, qualcosa accada come un inciso del senso comune, ma in maniera che possa essere tutta la nostra vita, l’intensificazione, presente o rimemorata, interna o lì da qualche parte nella musica, intorno a noi. Che importa oramai, in questa complicazione dove non c’è che voce individuale e nel contempo globalità del campo? Dove si dà solo il sapore trasmissibile del confluire, della forma del “più voce senza più voce propria”, della scrittura riaffidata a quella voce-evento che invita l’inchiostro a ritornare nella sua penna?